Siamo nel 2021, la parola storia ha ormai acquisito un significato molto diverso da quello che porta con sé dalle sue origini etimologiche. Siamo pronti a scommettere che anche tu sei arrivato/a ad interagire con una storia sui social network negli ultimi anni.
Questo particolare formato di post è stato dato alla luce da Snapchat: la piattaforma giallo canarino simboleggiata da un fantasma proponeva (e propone tutt’ora) le storie come focus principale della sua user experience. Agli utenti viene data la possibilità di creare ed esprimersi attraverso questi scatti e/o brevi video, da arricchire con sticker, musica, filtri e chi più ne ha più ne metta. La particolarità di questo peculiare tipo di post è la sua.. vita. Dopo sole 24 ore dalla sua pubblicazione esso si autodistrugge, sparendo dalla propria vista e da quella della propria cerchia di followers e non. Questo meccanismo ha dato vita ad una lunga serie di features clone, principalmente nelle chat private, in cui i media scambiati hanno acquistato le potenzialità di autodistruzione delle storie principali.
La novità e la freschezza apportate da Snapchat hanno ingolosito gli altri top player del settore, in particolare portando il gruppo Facebook a compiere una mossa che ebbe dell’eclatante, cioè l’implementazione, nel 2016, di un sistema di storie su Instagram il cui funzionamento richiama in maniera fedelissima quello dell’app originale. Da lì, il mondo non ha più potuto fare a meno delle storie. Hanno raggiunto gli altri lidi del gruppo Facebook, cioè la piattaforma originaria, Messenger e persino Whatsapp, ma non si sono fermate qua, perché altri competitor hanno ben pensato di accaparrarsi una fetta di torta. E quindi ecco le storie di Twitter, di Linkedin e persino quelle di YouTube. Esse sono diventate parte integrante del set base di post per qualsiasi social network degno di questo nome ed un importante mezzo di monetizzazione.
Oltre che per le storie su YouTube (dall’identità particolarmente caratterizzata, in quanto sono denominate video brevi e gestite come una sorta di add-on per permettere ai creator di fornire aggiornamenti sulle loro pubblicazioni) Google si è adoperata per dare alla luce un peculiare tipo di Storie, molto personalizzato ed orientato maggiormente per sua natura verso il lato business, le Web Stories.
La loro origine è da ricondurre al formato AMP (acronimo di Accelerated Mobile Pages), progetto open source spinto caldamente da Google, in ottica di rendere i contenuti web fruibili con tempi di attesa quasi nulli. Dopo qualche primo tempo di vita sotto l’ala di AMP, Google ha preso in mano il progetto e l’ha ri-denominato Web Stories: al momento, esse sono disponibili solo negli Stati Uniti, in India e in Brasile, ma il piano è di diffonderle su tutta la rete mondiale. Possono essere create e personalizzate nei minimi dettagli con il lavoro di sviluppatori e grafici, ma esistono anche dei siti di terze parti (e consigliati da Google per entrare in poco tempo nella loro mischia, come News Room AI e Make Stories) che offrono tool immediati per la loro creazione. Di seguito, le loro peculiarità principali e le possibilità alle quali consentono di accedere:
Ma soprattutto, sono monetizzabili. L’unica possibilità di guadagno disponibile fino a pochi mesi fa era la vendita, da parte dei publisher, di spazio pubblicitario sotto forma di Web Stories e l’unica piattaforma pubblicitaria attraverso la quale gestire questo tipo di promozione era Google Ad Manager. A dicembre dello scorso anno è stato annunciato l’arrivo del programmatic advertising anche per le Web Stories: è disponibile per i publisher che utilizzano Google Ad Manager e Google Ad Sense e la piattaforma utilizzata per l’acquisto dello spazio pubblicitario è, per ora, solo la Rete Display di Google, ma è in programma l’aggiunta di altre demand-side platform.
Con il privilegio dell’essere indicizzabili, le Web Stories portano con sé l’onere per il gestore di procurare loro un’adeguata ottimizzazione SEO. Molte delle dritte richiamano i consigli indicati nel nostro articolo sulla Visual Search (se non lo hai ancora letto, te lo linkiamo qui), come il dare un nome corretto ad ogni storia — possibilmente non molto lungo, Google stessa consiglia di usarne uno da 70 caratteri circa, che sia ben descrittivo — il coinvolgimento dei metadati, l’utilizzo dell’alt text e delle giuste keyword e il fornire a Google il codice sitemap XML della propria Web Story. In generale, Big G ricorda che content is king: offrire la propria prospettiva, sviluppare un arco narrativo e magari privilegiare l’utilizzo di brevi video sono le armi vincenti per fare breccia nel cuore degli utenti con le Web Stories.
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